La ceramica graffita a Ferrara: tipologie, tecniche, repertori decorativi

Scritto da  Lucia Bonazzi

Sebbene gli studi siano in divenire e i problemi aperti ancora numerosi, gli archeologi sono in grado di ricostruire l'evoluzione della graffita arcaica padana, prodotta in numerosi centri tra cui Ferrara, a partire dalla seconda metà del XIV secolo. Si tratta di una tipologia destinata ad ampie fasce di popolazione urbana e rurale, quindi che emerge in modo frequente negli scavi. Questo primo stadio di una stagione produttiva che si protrasse fino al XVII secolo, presenta una certa omogeneità tra i vari centri manifatturieri, distribuiti a partire dal Piemonte orientale e la Lombardia occidentale, fino al Veneto e l'EmiliaRomagna, seguendo l'espansione del dominio dei Visconti e sotto l'influsso della graffita arcaica tirrenica, che si esaurì durante il Trecento. In Emilia Romagna, dall'ultimo quarto del XIV secolo, sono documentate produzioni locali di graffita arcaica padana a Piacenza, Modena, Ferrara, Bologna, Imola, Faenza, Ravenna, Forlì, Cesena e Rimini. Le caratteristiche ricorrenti di questa tipologia sono la preferenza formale per le scodelle emisferiche con stretta tesa e piede a disco, catini tronco- conici apodi, boccali ovoidi o bi-troncoconici. Le decorazioni si presentano più articolate rispetto a quelle della graffita tirrenica: elementi disposti in scomparti, tralci ondulati di foglie, losanghe tagliate in croce, stelle, uccelli, accompagnati dalle tipiche sgocciolature in bicromia ramina-ferraccia.
Naturalmente la produzione e commercializzazione delle semplici ingobbiate e delle ingobbiate graffite si affiancava a quella delle ceramiche smaltate e delle ceramiche da fuoco refrattarie ed invetriate, in una pluralità di tipi e di tecnologie, trasmesse grazie alla circolazione di maestranze artigiane in tutto il Mediterraneo.

Le tipologie della graffita sono state classificate in gruppi particolari, principalmente in base alle forme ed ai decori che si sono susseguiti, e in parte sovrapposti, nel tempo. Ci soffermiamo su quelli principali: la rara graffita arcaica evoluta, destinata ad una fascia di acquirenti più facoltosi, è attestata dal 1400 a Padova ed in Emilia Romagna (Bologna, Finale Emilia, Ferrara, Imola, Faenza, Forlì), si distingue per le scodelle dal bordo increspato o a festoni, la presenza di listelli e cordonature all'esterno delle forme aperte, una decorazione elaborata e fitta, spesso estesa anche all'esterno (motivi come stemmi, emblemi, lettere, iscrizioni, viluppi di fogliame accartocciato, fondi a graticcio). La graffita arcaica padana tardiva comparve dopo la metà del XV secolo, in compresenza con altre tipologie ed è caratterizzata da un ampliamento della gamma delle forme aperte, quali catinetti, piattelli molto svasati e poco profondi, ecc; i decori continuarono ad essere geometrici o vegetali, ma con nuove, corsive stilizzazioni (ad esempio le foglie cuoriformi), accompagnati spesso da pennellate di colore incrociate in verde e giallo-bruno ed in assenza di rivestimento esterno nelle forme aperte.
La graffita prerinascimentale si diffuse dal secondo quarto del XV secolo, con forme per lo più aperte, come ciotole emisferiche, scodelle, bacili, coppe su alto piede svasato, lavorate anche esternamente; inediti motivi decorativi sostituirono quelli della graffita arcaica, tra cui lettere gotiche, animali simbolici, busti umani, elementi araldici, circondati da fitti tralci di foglie, su fondi tratteggiati o puntinati, impreziositi dalle cosiddette "rosette". Scarti di fornace di questa tipologia sono emersi per esempio a Bologna, Ferrara, Castelfranco Emilia.
La graffita rinascimentale, molto simile alla precedente, si diffuse tra il terzo venticinquennio del XV secolo e la metà del successivo, soggetta ad una standardizzazione delle forme, soprattutto aperte, tra cui la piccola ciotola a calotta è la più rappresentativa, ma non mancano pezzi "da pompa" di grandi dimensioni o baccellati. Figure umane, per lo più a mezzo busto di profilo, cervi, cani, conigli entro cornici polilobate o medaglioni, simboli religiosi e araldici erano gli elementi ornamentali più tipici, accompagnati da un repertorio secondario di nastri ondulati o intrecciati, foglie accartocciate, siepi a graticcio, prati fioriti, "rosette" e fondi puntinati a rotellature o tratteggiati. Talvolta compare il giallo antimonio in aggiunta alla bicromia consueta, una nota preziosa che ricordava gli effetti della doratura in manufatti più pregiati. I centri produttivi andarono moltiplicandosi: Ferrara, Modena, Carpi, Finale Emilia, Cento, Bologna, Lugo, Imola, Faenza, Ravenna, Cesena, Rimini... Nella seconda metà del XV - inizio XVI secolo, accanto a queste produzioni sofisticate, circolavano anche le cosiddette graffite a decorazione semplificata, suddivisibili in vari sotto- gruppi e derivanti dal filone tradizionale, conservativo della tipologia tardiva. Scarti di prima e seconda cottura sono stati rinvenuti anche a Ferrara. Tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo le graffite a stecca si sovrappongono cronologicamente a quelle rinascimentali, per continuare ancora durante tutto il XVI e XVII secolo: decori geometrici a simmetria radiale, fasce concentriche, medaglioni centrali, "rosette" ed altri elementi vengono corredati da sobrie colorazioni in giallo antimonio e verde ramina. Talvolta l'incisione a stecca è abbinata a quella a punta, per ottenere variazioni di segno, effetti chiaroscurali e contrasti, come nella nuova e originale decorazione delle fiasche da pellegrino. Bologna, Imola, Modena, Ferrara sono annoverate tra i centri produttori di questa tipologia.
Le graffite sopra descritte convivevano con una variegata messe di altre ceramiche, come le ingobbiate monocrome o policrome, dipinte, invetriate verdi o lionate, maculate, marmorizzate, ecc, oltre alle maioliche, sulle quali, per ragioni di spazio e minore pertinenza al nostro tema, non ci soffermiamo.
Per studiare i manufatti ceramici graffiti, i materiali e la tecnica da cui hanno avuto origine, è indispensabile compiere un percorso a ritroso, attraverso le tappe della loro fabbricazione.Alcuni elementi fondamentali di tecnologia ceramica aiutano a stabilire delle correlazioni tra causa (materie prime, iter produttivo) ed effetto (prodotto finito).
Al fine della ricostruzione consequenziale dell'iter produttivo risulta molto utile poter disporre di scarti e semilavorati o prodotti così difettosi, a causa di imperizia o accidente, da impedirne la conclusione e la commercializzazione. Difetti estetici relativamente lievi, come i segni dei treppiedi distanziatori all'interno delle forme aperte, non erano considerati un ostacolo allo smercio dei prodotti. Le notizie che uno scarto di fornace può rivelare vanno dalla materia prima, alle operazioni compiute, alla tecnica di infornamento, al numero di cotture subìto.

La ceramica ingobbiata e graffita si caratterizza per l'impasto argilloso poroso e per la presenza del rivestimento. La temperatura di cottura può oscillare tra i 900° ed i 1000°. Il riconoscimento di un prodotto ceramico richiede l'osservazione in frattura, possibilmente fresca. La sezione dei frammenti porosi presenta una superficie irregolare, rugosa, che si sporca facilmente.

I processi tecnologici comuni a tutti i prodotti ceramici sono la preparazione dell'impasto, la foggiatura, l'essiccamento e la cottura. La prima fase comporta la scelta delle materie prime ed eventuali operazioni di depurazione e miscelazione. Segue la foggiatura, attraverso cui si modella la forma dell'oggetto e poi l'essiccamento necessario a far fuoriuscire l'acqua di foggiatura. La cottura è indispensabile per ottenere un manufatto solido e coeso, dotato di una sufficiente resistenza chimica e meccanica. L'applicazione di un rivestimento può rispondere sia a scopi estetici sia a criteri funzionali e si possono adottare più rivestimenti diversi, applicati in fasi differenti della lavorazione.
Il seguente schema comparativo dà conto di tre iter possibili per la realizzazione di ceramiche ingobbiate con vetrina. Per ottenere un impasto omogeneo, di composizione e granulometria adeguate alla foggiatura e alle operazioni successive, fino ad arrivare ad un prodotto esente da difetti, sono necessarie alcune operazioni, che possono variare a seconda dei casi. Dato che quasi mai le argille, così come sono reperibili in natura, soddisfano i requisiti indispensabili alla lavorazione si procede alla scelta delle materie prime, ai trattamenti delle stesse (depurazione, macinazione), al dosaggio ed alla miscelazione. Nel caso di un impasto semplice (costituito da materie prime già associate in natura) è sufficiente solo la depurazione. Per gli impasti composti invece, costituiti da materie prime di diversa provenienza, sono necessarie tutte le operazioni suddette. Oltre alla componente argillosa, gli altri ingredienti possono essere la silice (SiO2) in funzione sgrassante; la chamotte, che si ottiene dalla macinazione di oggetti di scarto o da argilla cotta appositamente; i feldspati, che garantiscono la coesione del prodotto finito grazie alla formazione di una fase vetrosa; i carbonati di calcio e magnesio responsabili della coesione e solidità del prodotto finito. La forma dell’oggetto può essere data direttamente dalle mani dell’artigiano o può essere ottenuta con l'ausilio di stampi, sagome, stecche e altri strumenti o particolari macchine, come il tornio. La forma finale può essere ottenuta per assemblaggio di parti preformate anche con tecniche diverse. Durante le operazioni di foggiatura l’argilla può trovarsi allo stato secco, plastico o di sospensione acquosa. Il tornio (o ruota) è la macchina più antica utilizzata per la foggiatura di forme corrispondenti a solidi di rotazione. «Prevede l'uso di un tornio su cui la palla d'argilla viene gettata e foggiata, con mani e/o strumenti, quando il tornio è in rotazione. L'opposizione tra la forza centrifuga e la pressione delle mani fa salire le pareti del vaso. Se sul tornio è fissato uno stampo, una parte della forma sarà determinata da quest'ultimo e l'altra dalle mani o da strumenti utilizzati dal foggiatore [...] Esistono due tipi di tornio: “semplice” e “composito”.

Il tornio semplice è costituito da un disco che può ruotare su un perno centrale, messo in movimento dal vasaio o da un aiutante. Nel tornio composito il movimento rotatorio viene trasmesso al disco su cui si foggia (detto girella) da un altro dispositivo, generalmente costituito da un altro disco coassiale, situato inferiormente e messo in rotazione dal piede (tornio a pedale).

Nelle forme chiuse realizzate al tornio le pareti interne sono caratterizzate dalle tracce a spirale che il foggiatore imprime sull’argilla durante la lavorazione. La superficie esterna è invece lisciata con le mani bagnate dalla barbottina o rifinita con strumenti appositi. In genere lo spessore della parete è più grosso alla base e si assottiglia verso l’alto. Il piede della forma, se distaccato dalla girella del tornio mediante un filo metallico, reca un particolare disegno sul fondo, lasciato dal filo metallico che viene trascinato sotto la base argillosa piegandosi». L’essiccamento si può effettuare attraverso l’esposizione all’aria del manufatto, fino all’evaporazione dell’acqua in eccesso o in ambienti con umidità e temperatura controllate. In tale fase possono insorgere fessurazioni e deformazioni, a causa del ritiro conseguente alla perdita d’acqua. La cottura provoca delle reazioni fisico-chimiche sugli oggetti ceramici. Il colore del prodotto finito può differire molto da quello dell’impasto a crudo, e dipende sia dal colore dei singoli componenti di partenza, sia dalle condizioni di cottura, ad esempio l’atmosfera ossidante o riducente. Un oggetto può essere sottoposto a più cotture, nel caso in cui si sia applicato un rivestimento o si sia proceduto a particolari tecniche decorative dopo la prima cottura. «Quando il rivestimento è applicato sul supporto crudo e si procede a una sola cottura per il consolidamento contemporaneo di impasto e rivestimento si parla di “monocottura”. E’ la tecnica più antica. Viceversa prende il nome di “bicottura” il procedimento che prevede una prima cottura per l’impasto, la successiva applicazione del rivestimento e quindi la seconda cottura. Per i prodotti porosi (faenze e terraglie) è più frequente la bicottura, almeno nei casi in cui ci siano rivestimenti 12 vetrosi, perché riduce il rischio di difettosità dei rivestimenti vetrosi». Sono noti a Ferrara scarti di prima cottura graffiti, senza dipintura a crudo. Gli scarti di seconda cottura sono utili alla comprensione delle tecniche di infornamento, come la disposizione dei pezzi, la compresenza o meno di manufatti differenti, le interposizioni tramite caselle o mediante treppiedi, detti anche zampe di gallo. Dai primi, remoti sistemi di cottura a cielo aperto si è passati alle strutture chiuse, i forni, le cui tipologie più evolute si caratterizzano per la presenza di un vano (laboratorio o camera di cottura) separato da quello in cui avviene la combustione (focolare). Questo garantisce una maggiore omogeneità delle condizioni di cottura (fig. 77). Le caselle e gli altri attrezzi da infornamento devono essere realizzati in materiali ceramici che non si deformino nella cottura. Tenendo conto che parte del calore prodotto va perso per riscaldare anche questa attrezzatura, il suo impiego va limitato al massimo (fig. 78). Esistevano metodi collaudati che consentivano il controllo della cottura pur non conoscendo l’esatta temperatura raggiunta nel forno. Da un lato l’esperienza acquisita nell’osservare il colore dell’ambiente interno della fornace permetteva di riconoscere qual era il momento di spegnere il fuoco. Infatti a partire da una temperatura di 525°C i corpi incandescenti emettono delle radiazioni luminose di colore rosso, che progressivamente diventa più chiaro e vira verso il giallo, intorno ai 1000°C, per poi diventare sempre più bianco tra i 1200° ai 1500°C. Un sistema utilizzato almeno fino al XIX secolo è quello delle “mostre”. Uno o più campioni di ceramica uguale a quella infornata vengono collocati in una zona del forno da cui possano essere estratti durante la cottura, grazie a delle pinze, attraverso un’apposita apertura. In questo modo si poteva verificare il grado di cottura degli oggetti infornati. Al momento tre fornaci del XVI secolo sono note in Emilia Romagna: a Cesena, a Faenza, a S. Giovanni in Persiceto, dove la struttura delle fornaci verticali era in mattoni crudi, con prefurnio e camera di cottura superiore con il piano forato, aderente al modello illustrato dal Piccolpasso. Dal punto di vista della struttura che presentano dopo la cottura, esistono tipi di rivestimento vetroso, cristallino o che presenta situazioni intermedie. I rivestimenti vetrosi si distinguono in trasparenti e opachi. Questi ultimi sono detti “smalti”, quelli trasparenti sono definiti in vario modo: in ambito tecnologico- produttivo si parla di “vetrina” o “vernice” per indicare un rivestimento vetroso trasparente, proprio dei prodotti ceramici cotti a bassa temperatura (faenze, terraglie) mentre per “coperta” si intende il rivestimento di grès e porcellane dure, che fonde ad alta temperatura, contemporaneamente alla vetrificazione del supporto. Gli ingobbi derivano dall’applicazione sul manufatto, preferibilmente crudo, di un’argilla analoga a quella impiegata per l’impasto, ma differente in genere per il colore. E’ importante che ci sia questa similitudine di caratteristiche tra impasto e ingobbio (ritiro in crudo, coefficiente di dilatazione) per avere un buon accordo tra i due e quindi minore rischio di difettosità. L’applicazione dell’ingobbio può avvenire per immersione o aspersione, operazioni rapide, che necessitano di ritocchi e a volte generano gocciolature anche sull’oggetto stesso. La tecnica decorativa del graffito prevede l'incisione, praticata dopo l’applicazione di un ingobbio sul supporto a durezza cuoio. L'effetto sarà esaltato dal contrasto di colore tra la parte incisa, che rivela il supporto più scuro, e l'ingobbio chiaro. Se si lavora con uno strumento appuntito o tagliente si tratta di incisione, secondo una linea sottile, mentre se la larghezza del tratto asportato è più o meno ampio si tratta di excisione, come nel caso delle graffite a stecca tardo rinascimentali. Se si asporta la parte circostante il motivo decorativo si indica con il termine desunto dall’oreficeria a smalto: “champlevé”. In ceramica le sostanze coloranti possono essere addizionate sia alle argille (impasti, ingobbi), sia ai rivestimenti vetrosi, sia ancora alla superficie, tali e quali o miscelate con opportune sostanze. Il loro requisito principale è la stabilità termica, poiché devono sottostare alle temperature di cottura del processo ceramico. Accade che il colore delle sostanze coloranti crude non corrisponda a quello che avranno dopo la cottura, durante la quale potrebbero decomporsi e/o reagire con altri composti presenti, formandone dei nuovi. I coloranti usati nel medioevo e nel rinascimento come gli ossidi di ferro, di rame e di manganese presentavano una certa instabilità chimica e la tendenza in alcuni di casi a volatilizzare a temperature superiori ai 1100°C. I prodotti naturali a base di ferro (ocre gialle, rocce e sabbie ferruginose, finemente macinate) sono i più antichi coloranti utilizzati in ceramica, per ottenere colorazioni dal giallo al bruno. I minerali di manganese, molto diffusi in natura, venivano macinati, ed usati direttamente per la decorazione ceramica fin da epoche molto antiche; possono conferire colorazioni brune o di tonalità più violetta a seconda dello stato di ossidazione. In ambiente di cottura ossidante il rame può dare una colorazione turchese in vetri alcalini e verde in ambienti piombici, quali la ceramica ingobbiata e invetriata. Più sporadico l’uso nella graffita del blu cobalto, anch’esso conosciuto fin dall’antichità, in Egitto e Mesopotamia, come pigmento per il vetro. Il minerale di partenza, cobaltite o smaltite, veniva scaldato fino a formare un ossido, mescolato poi con la silice e venduto con il nome di “saffre” o “saffer”, (termine di origine araba) ai fabbricanti di vetro e di ceramica, che lo fondevano con la potassa ottenendo il vetro colorato detto anche smalto. Per ottenere il pigmento, applicabile anche in pittura, il tutto veniva macinato e lavato. Infine i composti dell'antimonio sono stati usati per creare colori gialli resistenti al fuoco, vernici, smalti per vetro e ceramica, con proprietà opacizzanti e coadiuvanti di adesione per gli smalti stessi. L’ultima applicazione di rivestimento nella ceramica graffita è quella della vetrina. I rivestimenti vetrosi si ricavano a partire da sostanze vetrificanti (silice), sostanze fondenti (ossido di piombo, ossidi alcalini e alcalino-terrosi), che permettono di ottenere una massa fusa a temperatura più bassa di quella della sola silice e sostanze stabilizzanti (allumina), che ne ottimizzano le proprietà chimiche e meccaniche. Si possono infine addizionare sostanze opacizzanti come l’ossido di stagno, o coloranti.

Negli scavi archeologici ferraresi, come abbiamo detto, vengono spesso alla luce frammenti di scarti di lavorazione e treppiedi, sebbene ancora in quantità non così ingenti.

Tra i ritrovamenti più significativi segnaliamo la discarica emersa in piazzetta Castello a Ferrara (US 279): un contesto unitario, relativo ad una precisa bottega, in un singolo momento cronologico (terzo quarto del XV secolo); essa presenta soprattutto scarti di fornace di seconda cottura. Tra i circa ottocento frammenti sono compresi scarti di prima e seconda cottura sia di vasellame invetriato da fuoco e da mensa, del XV secolo, sia di ingobbiate monocrome; biscotti, pezzi di seconda scelta e stracotti di graffita arcaica padana tardiva; scarti di graffita pre-rinascimentale. I difetti più frequenti sono le eccessive colature di vetrina, i segni evidenti dell’attacco di altri recipienti, le alterazioni del colore dell’impasto e del rivestimento. Negli scavi in Corso Giovecca gli scarti di fornace rinvenuti erano concentrati in quattro butti. I frammenti di scarti di prima cottura di graffita di epoca rinascimentale sono esigui, altri sono pertinenti alle graffite a stecca ed infine alcuni scarti di fornace databili tra la fine del XV - inizio del XVI secolo sono relativi a maioliche, tra le poche tracce materiali della produzione ferrarese cinquecentesca di vasellame a rivestimento stannifero, di cui le fonti d’archivio sono prodighe di 16 attestazioni. Dallo scavo dell’area detta “il Chiozzino” provengono numerosi scarti di prima cottura di ingobbiate, di cui una bassa percentuale di graffite, qualche invetriata da cucina e da mensa, talora decorata a ingobbio, treppiedi e dischi distanziatori. Più sporadici gli scarti di seconda cottura, come un fondo di catino invetriato saldato al treppiede. I segni distintivi (simboli o sigle) incisi o modellati a stampo sulle zampe di gallo, sempre in crudo, sono stati interpretati in vario modo; probabilmente erano necessari a discernere le diverse partite di manufatti di ogni singolo ceramista in un’infornata comune o forse erano indicatori delle loro diverse misure, dai 6 ai 24 cm o delle diverse forme a cui erano destinati. I treppiedi erano impiegati per impilare le forme aperte, i dischi per quelle chiuse, le caselle erano preferite per la cottura delle maioliche. Scarti di fornace, microvasetti per i colori e distanziatori sono presenti anche in collezioni pubbliche e private ferraresi, pubblicati da Ferrari (1960), Reggi (1972), Magnani (1981- 82), Visser Travagli (1989). Tutta una serie di lavori edilizi negli anni Settanta del secolo scorso hanno portato allo spianamento di terreni urbani ed alla dispersione in discariche pubbliche di numerosi cocci, suggerendo l’ipotesi che le fornaci per ceramica fossero dislocate, per ovvii motivi pratici, lungo le vie d’acqua cittadine e presso alcuni monasteri, come S. Bartolo, S. Benedetto, S. Bernardino, dove sono emersi materiali di lavorazione della ceramica. Alcuni frammenti inediti di scarti di prima cottura e treppiedi, di collezioni private, provengono dall’area del sotto mura meridionale. La fig. 79 si riferisce ad un frammento di cavetto e di parete (5 cm larghezza massima) relativo ad una piccola ciotola emisferica su piede a disco leggermente concavo. Ingobbiata e graffita anche all’esterno, presenta sotto il piede un’ampia incisione in crudo a forma di asterisco, embricature sulla parete esterna della vasca ed una figura di coniglio retroverso su fondo punteggiato come decoro principale interno. L’impasto è di colore rosso. In assenza di dati stratigrafici, basandosi solo sulle caratteristiche dell’oggetto, si può riconoscervi una graffita pre- rinascimentale o rinascimentale, una di quelle stoviglie “amatorie”, donate in occasione di nozze o fidanzamenti, come allude il tema tradizionale e beneaugurante della “coniglia gravida”. Un secondo insieme proviene dall’area compresa tra Porta S. Pietro ed il Volano: piccoli frammenti di biscotti graffiti a punta, dall’impasto color rosso mattone ed un treppiede molto usurato, contrassegnato da un simbolo circolare. Altre zampe di gallo trovate nella stessa area, in stato frammentario, presentano segni distintivi in rilievo, a configurazione globulare nel primo caso e a forma di monogramma (AM?) nel secondo caso. Uno scarto di seconda cottura, proveniente dalla zona dell’ex monastero di S. Bernardino, è composto da un frammento di ciotola emisferica, invetriata monocroma giallo- marrone (lionata), saldata al treppiede. Esternamente l’ingobbio è esteso fino quasi al piede a disco, leggermente concavo, mentre la vetrina è limitata all’orlo. L’impasto è di colore marrone chiaro, la larghezza massima del pezzo 11,5 cm. Potrebbe essere interessante confrontare delle analisi composizionali di scarti di seconda cottura, rinvenuti a Ferrara, con le ricette dei coevi trattati artistici dell’Italia settentrionale, per riscontrare eventuali correlazioni ed inquadrare meglio i saperi tecnologici locali. Ciò che sembrerebbe distinguere la produzione ferrarese, ad esempio rispetto a quella veneta, è la predilezione nelle forme aperte del piede a disco anziché ad anello ed il trattamento (rivestimento/ decorazione) anche della superficie esterna dei pezzi. Rispetto alle altre produzioni regionali, studiosi come Ferrari, Reggi e Magnani hanno valorizzato il ruolo di Ferrara, assegnandole i pezzi di maggiore qualità artistica, in ragione soprattutto del prestigio e della promozione culturale estense. Nepoti (1991) ha messo in discussione tali argomentazioni, sottolineando che prima di tutto la presenza e l’evoluzione della graffita a Ferrara non sono tanto diverse da quelle di Bologna, stando all’evidenza archeologica; inoltre il primato artistico di Ferrara, per quanto convincente, resta un concetto aprioristico; infine Bologna offrirebbe una documentazione più esplicita sia a livello di scarti di fornace, sia di documentazione d’archivio. Certo è giustificabile, sebbene non inattaccabile, l’attribuzione a manifatture ferraresi di pezzi rinvenuti localmente, decorati con stemmi e imprese estensi, ma sono insufficienti le attribuzioni basate solo sulla presenza della lettera F (che potrebbe indicare, non già Ferrara, quanto l’ambiente dell’(in)firmeria o avere un altro significato) o su motivi decorativi ricorrenti nelle arti ferraresi, tuttavia esportati o condivisi con le arti modenesi, bolognesi, ecc. L’annoso problema resta tuttora aperto.

(Tratto da Lucia Bonazzi, Origini e sviluppi del collezionismo di ceramica graffita ferrarese, tesi di dottorato pubblicata negli Annali online dell’Università di Ferrara)

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